Il cinema, ma più in generale i linguaggi del ‘900, occupano una posizione centrale, quasi di ridefinizione paradigmatica nel lavoro di Vanessa Beecroft. Legata in particolare all’espressionismo tedesco o a registi come Godard o Rossellini, la Beecroft trasferisce su un livello percettivo personale l’idea che muove dalla mutazione che questo linguaggio imprime nella nostra mente. Le performance diventano elemento “altro da sé” con cui rappresentare le distanze che intercorrono tra chi vede le azioni e le azioni stesse. I corpi umani, altro grande interesse dell’artista italo-inglese, rappresentano uno specchio riflettente eppure un possibile da penetrare.

Non a caso tutte le ragazze che operano le performance (e di converso i lavori fotografici a queste azioni ispirate) hanno qualcosa della stessa artista: una somiglianza seppur vaga che è, contemporaneamente, sé e, appunto, altro. La Beecroft le modella quasi attraverso la loro stessa epidermide, superficie corporea e limite fisico dell’opera d’arte. Le donne appaiono, allora, come una figurazione della natura, e, allo stesso tempo, come la sua astrazione vivendo ai limiti del comportamento riturale umano. Allo stesso modo la sua pittura è legata alla percezione estesa alla soglia di ciò che la mente umana riesce ad introiettare all’interno. Una personalità complessa ma anche dotata di estrema classicità nei suoi riferenti riletti tutti con lo spiazzante linguaggio della contemporaneità.

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